Mosaico accecato
Le poesie, già lodate da Eugenio Montale, sono recensite dal poeta-critico letterario, Roberto Rebora di Milano…“l’accenno alle preoccupazioni formali dei versi tende a soluzioni riflessive, visive e sensibili…si avverte, o si crede di avvertire che queste poesie sentono l’insidia dell’impressione, del tempo rivelatore, dell’intuizione che guizza con le cose e con le reazioni rapide che provoca…ma, contemporaneamente, cercano tutto ciò fino a rimanerne consapevolmente soggette, accanendosi, negli accostamenti abbaglianti (proprio accecati per lo scatto di luce che è e che non è più, subito) di ogni singola possibilità costruttiva…e la poesia si batte, validamente, tra l’espressione compiuta e il timore di compierla…in un’urgenza esistenziale, compatta e ferma nei suoi nodi espressivi individuali, come la sostanza stessa del suo essere…”.
Roberto Rebora, “Poesie di Ottorino Villatora”, in Corriere del Ticino, 24.4.1976, (Ticino letterario)
Hans Ganz o del frammento teorico
Carl Jakob Burckhardt (1891-1974), storico-scrittore, diplomatico, è compagno di studi ginnasiali e universitari del drammaturgo zurighese, Hans Ganz (1890-1957). O. Villatora, inizio1973, gli spedisce il suo studio biocritico dattiloscritto, prima ancora di stamparlo. Burckhardt gli risponde con una lettera manoscritta, il 26.6.1973 da Vinzel (Vaud)-CH, con stupita ammirazione… “lei ha scritto una biografia sorprendente, una storia sofferta, non solo di un individuo dotato di rare qualità ed eternamente giovane, ma anche la storia di un’epoca con i suoi aspetti di moda, che assunsero per Hans Ganz spesso un carattere coattivo, in cui emerse soprattutto il suo quasi obbligato odio paterno…il suo ritratto rimarrà”.
In Prefazione, Carl J. Burckhardt, Lettera manoscritta a O. Villatora, Vinzel (Vaud)-CH, il 26.6.1973
Morte di O.
Il frammento in prosa, kafkiano, immagina la morte dell’autore, in un qualunque paese, in un qualunque giorno (venerdì), visitato, per l’ultima volta, da una qualunque giovane, di nome L., “terribilmente buona”.
Giorgio Bàrberi-Squarotti, docente universitario (Torino), saggista, poeta-scrittore, commenta…“un frammento di grande finezza, bellezza, che lo dimostra prosatore sapiente e sensibile”.
Giorgio Bàrberi-Squaròtti, Lettera a O. Villatora, 12.5.1978
Monodìa (Italiano/Francese)
Monodìa, poesie, testo francese a fronte, e otto disegni in bianco-nero dell’autore, che la Rivista di Lugano, Cenobio, ripropone con il titolo Fraternità e l’indicazione Contro l’alienazione di questa parola. L’autore dedica la raccolta a T. Hocevar, a tutti, a nessuno.
Ottorino Villatora, Cenobio, (Rivista semestrale, diretta da P. Frigeri), n.6, nov.-dic., Lugano-CH, 1978
Stèle pomìcee – Metope bucrànie
Interviene, in Prefazione, Giorgio Bàrberi-Squaròtti: “La poesia di Ottorino Villatora si distingue immediatamente per la compressione estrema in un dettato essenzialissimo, fortemente scandito nel verso brevissimo, in cui la parola assume una forza di rivelazione di eccezionale violenza, accentuando fino ai limiti stessi della lingua, attraverso l’isolamento nel verso, la carica semantica, di cui essa è portatrice…ogni descrittivismo è annullato e, dei dati del luogo o del tempo, non rimane che qualche tratto isolato ed essenziale, estremamente rilevato in questo isolamento metrico e sintattico, tanto da determinare il costituirsi di un’atmosfera magica e onirica e da dare il senso di una scoperta folgorante degli elementi profondi e costitutivi di quella realtà, che è all’inizio dell’operazione poetica…una poesia, appunto, visionaria e visiva: assolutamente inconfondibile nella sua voce e, al tempo stesso, così lucida e così tesa”.
XV Tabulae pictae (Italiano/Tedesco)
Ottorino Villatora, in Prefazione: “L’immagine e la parola tornano dunque a coniugarsi, in complementarietà diretta, visibilità e foneticità, in 15 quadri e in quindici liriche, che l’autore assomma con voce latina Tabulae pictae…scopre al lettore il commosso tremore di questo iter, a volte, così inquietante, rivedendo luoghi, ricordi, che la patina del tempo ha quasi cancellato, le piccole o le grandi cose, che ognuno afferra gioendo, o perde piangendo…”.
Strenuo oblìo-Tapferes Vergessen (Italiano/Tedesco)
Bino Rebellato, poeta e scrittore, interviene in Prefazione: “L’ imperiosa intonazione iniziale e la corrucciata mùtria bellica, come un soldato, del poeta Ottorino Villatora, vuole, decisamente e strenuamente, corazzarsi contro l’oblìo, che divora ogni cosa bella.
E, in questo atteggiamento di ambiziosa e solitaria resistenza, egli tenta di salvare, in 16 composizioni poetiche, quel qualunque paese di periferia, quel qualunque piccolo bar, in cui viene e va, scende e sale, tra tavole e vetri, quella qualunque A., nel variare delle stagioni, del vestito e del cuore…le parole sono sillabate, singulte, tremano in disparte, pudiche e gelose, in una scrittura densa…le stesse funzioni retoriche, chiamate in causa, come il climax ascendens-descendens, le sinestesie, le contrazioni allitteranti, i ritmi distolici e sistolici, le palpitazioni deittiche sono sempre obbedienti all’immediata Stimmung o all’Erlebnis circostanziale, dove ogni probabile prospettiva scompare, per ravvicinare frontalmente la quotidianità dell’anima…”.
Anà-Katà (Italiano/Tedesco)
Ottorino Villatora, in Prefazione: “Posso riferirmi, a proposito di queste poesie, al caso o all’evento o, forse, a tutti e due: all’uno, perché mi trovai a Creta per caso, all’altro, perché quell’isola di Giove mi si intonò subito, in modo mitologico e psicofisico nel profondo.
E il tentativo di afferrare il metamorfico, che il quotidiano mi porgeva, fuori e dentro la massa turistica, in indefinite variazioni, è il risultato di questa presenza poetica in 23 momenti verbali e grafici”.
Cosetta Amici, giornalista e critico letterario, conferma: “…nelle poesie cretesi e nei disegni, Villatora concede assai più del consueto al normale svolgimento sintattico del verso e del segno, abbandonando, almeno parzialmente, il sapiente formalismo delle precedenti raccolte…qui egli trova il dispiegarsi del dialogo fra il poeta e il suo dio (o Super-Io?) tiranno, sospeso tra libertà e regola, tra antichità e modernità”.
Amici Cosetta, Anà-Katà di O. Villatora, in Cenobio, n. 4, dic., 1989, Lugano-CH
Rossore réliquo (Italiano/Francese)
Riferisce il poeta-scrittore-drammaturgo, Francis Bourquin, di Villeret (BE-CH), membro della Società Svizzera degli Scrittori, a cui da tempo anche O. Villatora appartiene:
“…mi riferisco ad un esimio poeta, tra i più originali della letteratura lombarda e ticinese contemporanea…e traduco, per lui, in francese, tutte le sue opere poetiche finora pubblicate…Mosaico accecato, espressionistico-surreale, Anà-Katà, processo verbale, diretto e distaccato, Stéle pomìcee-Metope bucrànie, saggio essenzialissimo, Monodìa e Strenuo oblìo, un realismo trasfigurato, XV Tabulae pictae, un mistero verbale-pittorico”.
Isa Sulzer, Ottorino Villatora/Parola-colore, ed. Aline, 2001, Lugano-CH, pag. 41
E Dubravko Pusek, poeta-critico, giornalista: “…il carattere e la totalità di questi versi si precisano nel segno di un’eccentricità, che conferisce loro una qualità metamorfica continua, anche quando il paesaggio non ha in sé alcun tratto esotico, ma solo una domestica dolcezza…ci si accorge che l’energia della memoria spande su tutto il testo il senso della transitorietà, che qualifica la parola di Villatora…”.
Pusek Dubravko, Giornale del Popolo, “Rossore réliquo – Nel segno dell’eccentricità”, Lugano-CH, 9.11.1989, anno LXIV, n. 258
Schiele attravrso Schiele
“Nel 1990, dopo quasi otto anni di ricerche faticose e di lunga meditazione, Villatora pubblica con l’Editore Giampiero Casagrande di Lugano, il suo denso studio sul pittore austriaco, Egon Schiele (1890-1918) con il titolo, Schiele attraverso Schiele, titolo, che vuole subito indicare che il primo obiettivo è Schiele e, attraverso lui, la sua epoca.
Il libro viene diviso in tre parti: a) profilo biografico, come inevitabile documento di base, su cui innestare la lettura dell’uomo e dell’artista; b) aspetti dinamico-creativi, come analisi, in verticalità, dell’opera acquerellata e ad olio, con le esigenze della più recente scienza dell’espressione; c) interpretazione psicologica, come rapporto tra corpo e psiche, nelle fasi di espansione o di arresto, nel privato (famiglia), pubblico (società), dove, appunto, l’arte riesce, in terapia esclusiva, a sublimare, ma, soprattutto, a socializzare lentamente l’uomo, che, altrimenti, si sarebbe autodistrutto: l’arte ripaga il costo psicologico, in un’alleanza parallela e complementare”.
Isa Sulzer, Ottorino Villatora/Parola-colore, Ed. Aline, Lugano-CH, 2001, pag.43
In Prefazione, Rossana Bossaglia, critico d’arte, scrittrice, docente universitaria, precisa: “La lunga, paziente, appassionata ricerca, che Ottorino Villatora ha condotto su Egon Schiele, ma anche cauta, vigile, senza concessioni sentimentali, per giungere alla stesura di questo libro, sulla personalità globale dell’artista-e nulla fino ad oggi era stato scritto intorno a Schiele di più approfondito, sistematico e penetrante-ha avuto come spinta prima e obiettivo finale il problema di capire le ragioni della convulsa e morbosa realtà psichica dell’uomo e le ragioni della qualità alta e intensa della sua arte, in modo che le due peculiarità si accordino, leghino e dipendano l’una dall’altra.
L’indagine accuratissima, ma non pedante, puntigliosamente analitica, ma sempre capace di ricondurre il discorso ai suoi significati generali, è un contributo moderno e originale al- l’inesauribile questione dei rapporti fra talento creativo e anomalia psichica, fra immaturità caratteriale e maturità espressiva: la domanda se e quale scotto dobbiamo pagare al talento artistico. Un adolescente limite -dice Villatora di Schiele- ma un artista nato”.
Paolo Malcotti o del colore domestico
Nel 1990, muore a 64 anni, il pittore di Ponte Tresa (I), Paolo Malcotti, (Paolino per gli amici), della cerchia degli artisti della regione di confine, (Walter Brunner-Sergio Maina-FrancoTettamanti). Per la dolorosa circostanza e con la testimonianza degli amici, O. Villatora pubblica un libretto-ricordo, che intitola, Paolo Malcotti o del colore domestico, in cui interpreta dieci quadri ad olio del pittore con dieci sue poesie.
In Prefazione, interviene O. Villatora: “La geografia gli è vicina, fuori casa, le rive del Ceresio, (Lavena e lo stretto), i paesi limitrofi, (Brusimpiano, Arbizzo), gli oggetti domestici, (la brocca, il piatto, su cui trabocca l’uva), i frutti della terra, (la mela, il melograno), i fiori, (le rose, gli alchechengi). Ma la trascrizione, che gli fa, di quella naturale geografia, visitata e rivisitata, acquista anche nella sua costante prospettiva canonica, tenue tremore, turbamento accorato, silenziosa effusione. In un tonalismo, cromaticamente avaro e, quasi sempre bluastro, quella sua spazialità micro-emotiva si dilata o si restringe, con quell’interno dispositivo, in un impressionismo particolare, vibrato e lavato, come se il tutto, riflettendosi, tremasse nelle sue nascoste lacrime…ed ogni quadro è un momento diaristico unico, un frammento evocato, un’impronta già indelebile di quel suo Io “naturale” e genuino, che obbedisce solo al cuore e mai all’intelletto”.
Eftim Eftimovski o neri gli effimeri
Nel 1991, Villatora riprende, con la parola, ad interpretare il pittore-scultore minimalista, Eftim Eftimovski, di origine macedone, diplomato a Brera (Milano).
Scrive dieci poesie per dieci opere grafiche di lui, in bianco e nero, con una pubblicazione personale, dal titolo, Eftim Eftimovski o neri gli effimeri.
In Prefazione, traccia un excursus biografico-critico del pittore.
Quindi, per dieci volte, immagina gli Effimeri, che si agitano, ibridi, tentacolari, come omuncoli zoomorfi, “assente il cielo, assente la terra…dopo il breve fiato vitale, fatalmente, diventano fossili di cimitero”.
Gli antenati
“Visitai, a suo tempo e per caso, l’atelier della pittrice, Mariangela Rossi, di Lugano già insegnante di disegno e figura all’Istituto Sant’Anna della città. Mi colpirono subito tre quadri appesi alla parete, di grande formato, dai toni cupi, (azzurro-verde-nero), in una modalità espressionistica surreale ed una gestazione decisamene intimista e psicologica.
Mi mostrò, tranquillamente, altri fogli, che mi piacquero molto. Ne scelsi immediatamente dieci: dieci figure isolate in una nobiltà corrucciata, estranea ed intransitiva…personaggi muti, statici e monologici…mi parvero degli Antenati, confinati nelle loro nicchie, indifferenti al progresso o al regresso del mondo. Volli dare loro la parola ed una situazionalità nel quotidiano e toccare, per un momento, il loro cuore. E, con il permesso della pittrice, verbalizzai i dipinti. Nacquero così le dieci poesie”.
Isa Sulzer, Ottorino Villatora/Parola-colore, ed. Aline, Lugano-CH, 2001, pag. 52
Fernando Zappa, critico-saggista, interviene, con puntigliosa e seria analisi: “…la creatività di Villatora ha saputo cogliere l’attimo fuggente esistenziale di ciascuna figura ed infondervi il soffio della vita e della poesia, con la parallela e duale aderenza complementare della parola, che nomina solo staticamente, eliminando il verbo dinamico, così da assumere un aspetto lapidario, immobilizzato, al di là del reale”.
Fernando Zappa, Gli Antenati di Mariangela Rossi e Ottorino Villatora, in Corriere del Ticino, 7.5.1992, Lugano-CH
Vittoria Magno, critico d’arte e giornalista di Treviso (I), precisa: “O. Villatora interpreta poeticamente (verbalizzazione) 10 quadri di Mariangela Rossi (visualizzazione)…con tale procedimento complementare la presunta Galleria degli Antenati, si fa presenza fonica e visiva…questo “entrar dentro” del figurale è dunque un sondaggio atemporale di vite temporali, che hanno avuto un nome e un cognome…le dieci pagine di diario, che ne scaturiscono, sono la confessione-frammento di ognuno, che emerge dall’ombra al guizzo rivelatore. Una donazione gelosa, caparbia, aristocratica…il ritmo fonico diventa sillabazione personale, unica, fazione attonita di un cuore doloroso, che nomina solo le cose, immobilmente…La brevitas poetica, tagliente, allitterante, dialogata da una sponda, consegna all’immagine pittorica un’umanità lontana e assente e “il soffio glabro” di quell’Io segreto e impassibile, che ha, dietro agli occhi, il brivido delle lacrime”.
Vittoria Magno, A proposito delle poesie di O. Villatora sugli Antenati di Mariangela Rossi, in “La voce di Castagnola”, aprile 1992, anno XLI, n. 4, Lugano-CH
Morte di O. (ristampa)
“Ancora ripubblica (e si fa un regalo) il suo frammento in prosa, Morte di O., del 1978, in un’Edizione d’Arte, presso l’Atelier di Josef Weiss di Mendrisio: caratteri Bembo Monotype, corpo 12, edizione impressa dalla Stamperia Valdonega di Verona su carta avorio Magnani gr. 160; acquaforte di Ottorino Villatora a colori, tirata a mano da Marco Mucha, nel proprio torchio; rilegata a mano da Josef Weiss con carta colorata a mano dalla moglie Giuliana; edizione limitata a 50 esemplari, numerati e firmati dall’autore: i numeri da 1 a 45 destinati alla vendita e a I a V, riservati ai collaboratori”.
Isa Sulzer, Ottorino Villatora/Parola-colore, ed. Aline, Lugano-CH, 2001, pag. 56
Glabro il soffio
“Nel 1993, pubblica presso l’Editore, Libero Casagrande di Bellinzona, 33 poesie dal 1989 al 1991, per dimostrare, senza immagini, che la parola può “sonare” e, nello stesso tempo, “pitturare”. Intitola le poesie Glabro il soffio: glabro (colore), soffio (parola): la parola splende lucidamente, mentre l’alito poetico palpita e, musicalmente, il suono trocaico, glabro, si ripete nel suono successivo, soffio”.
Isa Sulzer, Ottorino Villatora/Parola-colore, ed. Aline, Lugano-CH, 2001, pag. 57
La Gazzetta Ticinese, a firma G.T.(sic), di cui O. Villatora è, da tempo, fedele collaboratore, reagisce: “…poesia, nutrita di silenzio…scandita da un respiro perennemente trattenuto e liberato in sillabe pregnanti…una poesia scarna e scarnificante…un Io ipersensibile attraversa con cautela, ma, intensamente, lo spazio della vita…nel bianco della pagina, pudicamente scolpita…”.
G.T. (sic), Una poesia nutrita di silenzio, in Gazzetta Ticinese, 16-22 febbraio 1994, Lugano-CH
E Amleto Pedroli, poeta e saggista, osserva, “con questa raccolta, Glabro il soffio, il poeta-pittore, in 33 poesie, spunta sempre, nel fluire delle immagini, con precise aggettivazioni di colore…e, nel ritmo del canto, conduce un dialogo con un interlocutore immaginario, come in Ti chiedo, oppure evoca un’immagine femminile enigmatica, come Ogni tanto…”.
Amleto Pedroli, Una diversa via alla ricerca nelle recenti liriche di Villatora, in Giornale del Popolo, Lugano-CH, 15.3.1994, n. 61
Ma è il critico-saggista, Flavio Medici, che conosce a fondo la produzione di Villatora, che commenta, in modo interiorizzato e puntualmente tecnico, la sua poesia, in tematiche valenziali, tra natura trasfigurata e relazionalità abbaglianti di lui: “Per temi di forte presa emotiva, Villatora ha scelto una forma espressiva, tesa e drammatica. Ne costituisce la base, sul piano semantico, una marcata tendenza all’analogia, che attraverso “accostamenti abbaglianti”, per usare una bella metafora di uno dei primi recensori di Villatora, l’autorevole Roberto Rebora, giunge a volte a esiti surrealistici. Si veda, ad esempio, l’aggettivazione sofferta, né si dimentichino, le personificazioni, che animano le cose e le sommuovono (“…sudava/il bicchiere/ della minerale”, pag. 69), oppure danno valore concreto, di netta pregnanza visiva, a termini astratti (“Ma già,/sulle nubi,/avverto libero/e allegro/il mio/sogno”, pag. 57). Grazie a simili scelte espressive, la poesia diventa la sede di una liberazione simbolica, di una riorganizzazione dell’universo; la rassicurante e apparente logicità del reale risulta dissolta. Si veda allora il particolare modo di mettere a fuoco gli oggetti: quasi mai compaiono figure intere, molto spesso sono invece esibiti, in forte primo piano, dei dettagli significativi. Si aggiunga inoltre che la stessa materia inorganica, affrancata dalla sua soggezione all’uomo, può, di quando in quando, diventare aggressiva (“L’ombra/ti taglia il petto”, pag. 15; “la tovaglia/ocra morde/ il sole”, pag39) e che colori cupi, carichi (il viola, il nero) sono accostati (ma, fatalmente, anche posti a contrasto) con tinte tenui: il risultato è una visionarietà allucinata, da incubo. Altre scelte espressive sono pure sapienti. Si pensi, per esempio, alla sintassi, spesso scorciata ed ellittica: frasi costruite in prevalenza da nomi, quasi a significare, con la mancanza del verbo, la sospensione della vita, oppure fitte enumerazioni, che, con il loro ritmo ossessivo, sembrano minare lo sforzo di conoscenza messo in atto dalla poesia. E pure vanno segnalate le strutture metriche, sottoposte ad un trattamento anticantabile, per fratture e dissonanze: i versi sono brevi, spesso composti di un’unica parola, oppure, se si allungano di qualche sillaba, sono spezzati all’interno da cesure forti (punti e virgole).
Ne deriva che il singolo vocabolo risulta dilatato nella sua carica evocativa e, come ha bene osservato Giorgio Bàrberi-Squaròtti, “assume una forza di rivelazione di eccezionale violenza”.
Flavio Medici, Espressionismo semantico nella poesia di O. Villatora, in Popolo e Libertà, Lugano-CH, 3.3.1994, n. 8
Ein matter Hauch (Tedesco)
Nel 1994, Albert Heubi, germanista e saggista, traduce “Glabro il soffio” di Villatora in tedesco, “Ein matter Hauch”, con la prefazione di Carlo Belloli, critico-scrittore. E Villatora pubblica le poesie con l’Editore Libero Casagrande di Bellinzona, che le inserisce nel suo Notiziario, per la Svizzera e per l’Estero, nel maggio del 1994, n. 5.
Piracanta
“Nel 1996, appare alle stampe “Piracanta”, con le Edizioni private dell’autore, Aline.
Il testo comprende 13 poesie in endecasillabi e 13 disegni grafici bicolori del 1988, magenta-nero: qui, nelle riproduzioni, il colore si ritira, sullo sfondo, in una velatura monotonale ciclamino, mentre avanza il segno e la sua divagante e intimista scrittura arabescata, “Art Nouveau”. L’autore, in prefazione, annota… “il titolo delle tredici poesie e dei tredici disegni, che le interpretano, rimanda alla pianta arbustacea, con piccoli fiori bianchi e bacche rosse. Il nome Piracanta, dal greco “pyr=fuoco, akantha=spina”, vuole indicare tutta la realtà, che ci circonda, o almeno frammenti della realtà, che il tempo trasforma, come la pianta trasforma il verde in fiore bianco e il fiore bianco in frutto rosso vivo, come il fuoco e, simbolicamente, vuole esternare le possibili sublimazioni positive (frutto), o negative (spine) dell’esistenza, nella precarietà del quotidiano”.
Isa Sulzer, Ottorino Villatora/Parola-colore, ed. Aline, Lugano-CH, 2001, pagg. 64-65
Jana e le altre
Il libro raccoglie 16 testi, in prosa e, a fronte, 16 tavole a colori, che “vogliono, contenutisticamente, dialogare, o interrelazionare, (verbalizzazione/visualizzazione), in stretta complementarietà. I 16 momenti, esistenziali e interiori, formalmente, privilegiano il colore e le palpitazioni del colore, in frontalizzazione bidimensionale, per sottolineare la profondità abissale e l’immensa variabilità della psiche femminile. La duale operazione, che usa, con strategie moderne, la pluralità dei linguaggi, si sforza di rendere più completa e totale ogni situazione, sia nella scrittura che nella pittura, tenute, volutamente, leggibili ed accessibili”. Così l’autore, in Prefazione.
Il libro viene presentato a Berna, Art Gallery, dal dr. Hans Reuteler e dallo scrittore-poeta, Paolo Gir, di Coira. A Lugano, al Palazzo dei Congressi, viene presentato dal prof. Amleto Pedroli, poeta-scrittore, per la parte letteraria e, per la pittura, dal prof. Paolo Thea dell’Accademia di Brera. Al libro viene conferito il Premio Schiller, il 31.5.1997, dal Consiglio della Fondazione Svizzera, “Schiller”, presieduto dal dr. Egon Wilhelm, nel Corso della 92.a Assemblea annuale ad Einsiedeln e viene ufficialmente dichiarato, Libro della Fondazione Schiller.
Augusto Giacometti (1877-1947) – L’uomo e il colore
A Zurigo, nel 1991, alla Galleria del dr. Rolf Schenk, Villatora vede una grande tela ad olio di Augusto Giacometti, Mannequin del 1930…da allora, comincia a raccogliere libri e documentazioni e a visitare, come per Schiele, la geografia di Augusto Giacometti: Stampa (Grigioni), dove il pittore nasce, Zurigo, dove rimane, dal 1915 fino alla morte, e, per l’archivio, l’Istituto Svizzero d’Arte della città. Visita poi Parigi, dove il pittore rimane per 5 anni, Firenze, dove si ferma per l3 anni.
In retrocopertina del libro:
“Ottorino Villatora presenta l’analisi di un grande artista, rimasto invisibile al mondo, a differenza del più illustre Alberto, suo compaesano di Stampa, nella Val Bregaglia.
Infatti, Augusto Giacometti è rimasto ancora oggi quasi sconosciuto, nonostante le sue 40 mostre personali, allestite, tra il 1910 e il 1987, e, nonostante i numerosi studi, parziali per molti aspetti, consacrati alla sua vita ed alla sua opera.
L’autore ci popone qui il complesso ritratto umano e critico del pittore svizzero, tenendo conto delle intime relazioni tra pulsioni individuali e soluzioni espressive, tra contenuti e forme, tra creatività e ambiente sociale.
Si tratta di un avvincente percorso analitico, puntualmente sostenuto da una ricca biografia, tra cui le testimonianze autobiografiche e quelle degli amici più fedeli.
Un saggio, che indaga nel contesto storico e culturale dell’epoca, nelle contraddizioni dell’artista, nelle “alternanze a pendolo” della sua produzione, nelle “relazioni dialoganti” del colore, vera e propria “parola nuova” di Giacometti, seguendone anche le “fughe” verso Parigi prima, verso Firenze poi, infine a Zurigo.
Così, da questo libro, che analizza l’uomo e l’artista, emerge l’innovatore “unico e fatato del linguaggio cromatico”. Perché la “storia di Augusto Giacometti è la storia del suo colore”.
Johann, il pittore e altro
“Villatora, tra il 1965 e il 1985, scrive Prose brevi, che intitola Johann, il pittore e altro, che pubblica poi nel 1998: un materiale “sudato”, contenutisticamente e formalmente, una biografia traslata, in momenti e persone, che lo interpretano, ma anche una prova compressa linguistica, che “assolutizza”.
Isa Sulzer, Ottorino Villatora/Parola-colore, ed. Aline, Lugano-CH, 1998
Duschenka variazioni antropomorfe (Italiano/Tedesco)
Nel luglio del 2000, Villatora pubblica Duschenka, con il sottotitolo Variazioni antropomorfe, 31 poesie (italiano-tedesco), in endecasillabi, e, a fronte, 31 tavole a colori del 1988: ancora foneticità e visibilità, in una fusionalità complementare.
In Prefazione, Albert Heubi, scrittore-saggista, commenta: “Il poeta-artista, Ottorino Villatora, che vive ed opera a Lugano-CH, presenta poesie e chine acquerellate su carta porosa, goffrata a mano. I soggetti, in generale, il paesaggio e la figura, sono rimandati a lontananze arcaiche, dove si fissano mineralizzati, in formelle iconografiche, ad alto e bassorilievo.
I colori, cantati e più decantati, fluttuano, nella composizione di base a carboncino, ora con tenerezza scontrosa, ora con struggente malinconia, ora con rassegnata immobilità, sempre immersi in una luce indiretta. La presenza personale dell’artista, che continua, anche con la parola, a ravvicinare il figurale, frontalmente e in simbiosi, e la densità dotta raffinata delle tematiche e delle gamme cromatiche, arricchiscono questo prodotto, che diventa vasto e smisurato, come un affresco antico, pregno di segrete e magiche alchimie”.
Figura-Colore In and out (Italiano/Tedesco)
Nel 2003, Villatora pubblica 52 tavole a colori con brevi testi interpretativi, a fronte, italiano e tedesco, che intitola “Figura/Colore-In and out”, a precisare, subito e perentoriamente, che, se, da una parte, la parola interpreta, la pittura, dall’altra, forma la figura “dentro” (IN) con il segno e la rivela “fuori” (OUT) con il colore.
In Prefazione, il critico dell’Arte, Beat Rütimann: “La figura, retaggio umanistico, diventa subito, in Villatora, un testo-pretesto, nella pluralità delle variazioni e nella forma ultima, che sostanzia il mondo, la vita e le cose di ogni giorno.
Il segno insegue, invece, immediatamente l’immagine, nella sua descrizione, con una continua e reintegrata invenzione, (di fronte, di profilo, intera, a mezzo busto, prona, in piedi, seduta…), che, di volta in volta, semanticizza il proprio soliloquio con quell’alta capacità tecnico-espressiva, che caratterizza Villatora.
Il quale non si riferisce all’involucro prospettico o a ciò che si vede (Alberti), ma alla densa presenza frontalizzata della figura, immersa, hinc et nunc, nel suo reliquario grigliato di illusionistico spazio geometrico.
Il colore, allora, protagonista, investe la figura, lontano e respirato, in sequenze liricamente decantate, in trinate e consumate trasparenze, in lagrimate condensazioni, in improvvisi arresti e in quel brividìo, che ogni tanto sprigiona.
Scatta subito un magnetismo psichico, un arousal estetico di attivazione e di modificazione, tra il produttore e il fruitore, perché il nucleo dell’emozione si sviluppa nell’identificazione con l’atto creativo e il fattore di complessità, che rientra prepotentemente nel campo interno della pregnanza gestaltica…”.
Luigi Valsecchi, pittore
Nel 2003, Villatora scrive una monografia analitica del pittore milanese, Luigi Valsecchi, classe 1934… “La pittura di Valsecchi, di matrice fauvista, come già annotava il critico prestigioso, Antonello Negri, nel 1984, si apre, continuamente, a sperimentazioni e a modalità internazionali o locali lombarde e, infine, alla generazione realista di Oltre Guernica: un realismo, che si rivolge al sociale, contro lo strapotere economico-politico…
Si intrecciano, in disparte, anche tematiche vicine, la famiglia, le occasioni di incontri, o circostanze particolari, che provocano quella visibilità immediata, che si restringe o si allarga…
Valsecchi, in una parola, travalica i confini degli schematismi storici, con una dedizione gaudiosa del dono luce-colore e del trionfo della sua carica umana…
Così egli guida, soprattutto, il colore, modulato come pura superficie, con quella pressione improvvisa, che la zona divide, e sale all’orizzonte, appena accennato, con onde azzurre…assale i ritmi delle case, con le tegole scompigliate, e distende il giallo sul corpo della bagnante supina…
Alla fine, lentamente, si placano le tele della protesta iniziale, dello scontro violento…Valsecchi si ritira, nel suo hortus conclusus, a cantare liricamente, nel suo conquistato silenzio, la cadenza del lago, a Domaso, (Como), il quadrato della finestra, il pontile, che sconfina alla riva, le ombre, che la brezza agita, i tronchi irrigiditi dal tempo e dagli autunni inevitabili…”. (pagg. 62-65)
Touha rubra (Italiano/Cèco)
Ancora, nel 2003, Villatora pubblica Touha rubra (nostalgia rossa): poesie, con testo cèco a fronte, che egli dedica a Jana, già dea dei Tatra, delle foreste dei lupi, del Pontico mare… “Ho stracciato/ le reliquie/ del settantacinque/ e credevo/ di dimenticare ed ancora/ sgorga/ il mio sangue/nel secchio/dei rifiuti”.
Il silenzio delle cose
Ancora, nel 2003, Villatora interpreta, con poesie, 18 acqueforti-acquetinte dello scultore Pino Sacchi di Pavia. In Prefazione, l’autore… “Ho tentato, con ostinato ed ambizioso rigore, di interpretare poeticamente, in endecasillabi non rimati, (cesure a minore, a maggiore), le 18 acqueforti-acquetinte di Pino Sacchi di Pavia (San Genesio) e di inseguire, in foneticità, la sua visibilità, nel variante segno e nella sua indefinita palpitazione spaziale del bianco e nero, e il suo mondo, lento, meditato, arcaico-rurale, che egli staticizza in stèle mosaicate, alla maniera di Giotto e di Antelami, con quell’arte medioevale-romanico-paleolitica, che egli, ancora oggi, privilegia.
La tensione delle figure, (uomo-animale-vegetale-minerale), viene bloccata e ridotta a formelle frammento, dove ogni cosa è già vissuta.
Così, tutto viene ricomposto in sillabe isolate, intransitive, (scompare la parola ed il suo artificioso gioco), in una terrestrità muta, in un’essenza atemporale e agravitazionale: il silenzio delle cose, allora, acquista, al di là, il significato di ogni vita, “attraverso il linguaggio antico e misterioso dell’arte”, come dice lui”.
Fragmenta I
Nel 2004, Villatora pubblica, con le sue Edizioni Aline, “Fragmenta I”, poesie 1960-1990, con illustrazioni a colori e bianco-nero. In Prefazione, il critico-saggista, Carlo Belloli:
“Ottorino Villatora canta vicende antiche, riabilita luoghi adusati, propone stupori dimessi, riflessioni primarie, tessendo trame di un quotidiano, minacciato dalla modernità, travolto dal decadere dello spontaneo; ricupera luoghi d’infanzia, profumo di boschi, in un ambito di atmosfere romantiche ed espressioniste, con il ricorso ad analogie esotiche, a situazioni depistanti, ad eufemismi ermetici, con una semplicità sconcertante, avvenimentale, che promuove il processo ideativo, in immediato contatto con il cosmo…Una poesia, casta e scorrevole, con scosse di intensificazione, nel dato semantico essenzializzato, mai approssimativo…una poesia verticale, a punta di diamante, senza sbavature, nel tempo e nello spazio. Raffinato soppesatore di aggettivi, letterariamente evocatori, Viilatora possiede una forza della natura, uno spettacolo di gioia immediata, che si risolve in un canto, privo di imposizioni e sempre stupefacente, con l’innocenza, che abbiamo perduto…In una cangiante molteplicità di richiami all’uomo e alla natura, in una patetica e convincente elementarità, il canto di Villatora, a frammenti, veleggia un’atmosfera evanescente e dolorosa di crepuscolo magico, dove si dissolvono la luce azzurra della sera e la musica di uno specchio d’acqua, come un bisogno di giorni color arancio. Una poesia, in una parola, che non è mai un tentativo di evasione, ma accertamento di valori e di significati, che sgorgano dalla profondità dell’intimo”.
Variazioni – Malcantone
Nel 2005, Villatora pubblica poesie, Variazioni-Malcantone, con tavole a colori, (blu-rosso), a fronte, che introduce, brevemente… “Poesie, come variazioni, “vicine”, come Malcantone,
la Tresa, o “lontane”, come natura, nube, acqua, strada, tempo, amarena…Tutto ciò, che si presenta all’occhio, viene trapassato, immediatamente, dalla fluttuazione umorale del momento, che riesce a bloccare, nel giro della parola, frammenti di una decantata e lucida realtà”.
Pedagogia dell’accompagnamento del malato terminale
Nel 2006, Villatora pubblica un corposo saggio di bioetica, su un tema sempre urgente, ma, purtroppo, poco valutato, la morte e il morire, e, in particolare, la pedagogia dell’accompagnamento del malato terminale, che coinvolge, in primis, il malato stesso, la costellazione assistenziale, (medico-personale infermieristico), la relazionalità parentale, che circonda la persona cara, che scompare per sempre…
A proposito, in Prefazione, il prof. André-Marie Jerumanis: “Lo studio intenso di Villatora vuole, precisamente, inserirsi nella logica dell’aiuto al morire…E la proposta di una pedagogia dell’accompagnamento del malato terminale inserisce la ricerca dell’autore, in una prospettiva relazionale, evitando di affrontare la questione del lecito e dell’illecito in modo astratto, ma nel contesto della vita, unico contesto capace di dare ragione al divieto dell’eutanasia e del suicidio assistito…Dopo aver definito il malato terminale, l’autore si accosta all’uomo di fronte alla morte, evidenziando un principio pedagogico fondamentale, cioè, “la pedagogia della vita diventa la pedagogia della morte: intera vita, intera morte: tutto viene consumato, nella ipseità verticale e nella relazionalità orizzontale…la morte, allora, diventa un compimento attivo…”.
Ettore Burzi, pittore (1871-1937) – “Malinconico silenzio – hostinato rigore”
Villatora, nel 2007, pubblica una densa monografia analitico-critica sul pittore Ettore BURZI: un volume di 400 pagine, formato A4, 91 tavole a colori.
Il pittore nasce a Budrio, 19 km a est di Bologna, il 16 gennaio 1872.
Frequenta l’Accademia di Bologna e si sposta a Venezia, nel 1892, dove rimane per 10 anni, fino al 1902…poi si trasferisce a Lugano/Ticino (CH), vicino alla sorella maggiore, Emma, già sposata nella città. Sposa una benestante Pisoni, dalla quale ha due figli, Max ed Ettore. Diventa cittadino svizzero, nel 1918. Si risposa con Clara Lendi di Tamins (Coira), nel1920. Espone, dal 1896 fino alla morte, 1937, in Italia, Svizzera, Germania.
L’autore, pagg. 364-366, precisa: “Burzi, nomade della natura, liquida-solida, nei luoghi, attorno ai quali si volge il suo viaggio artistico inquieto…resta immobile ad ogni stazione dell’albero, della casa, del fiore, o dell’autunnale riduzione del frutto, nell’ultimo suo ciclo, in una maturità sempre più completa…Egli non è un rivoluzionario, un innovatore viscerale, non protesta contro nessuno…non lacera l’arte, non la divide, non la astrae, non la pone al piedestallo della mente, non profana la Gioconda con i Dadaisti, non si automatizza in un inconscio nebuloso con i Surrealisti, né vuole essere, coûte que coûte, un originale, non concede al concetto il suo mondo, e nemmeno all’oggetto “trovato”, né ad una disparata interdisciplinarità infinita, che Althusser smaschera, come una “contraddizione incerta”.
Egli, nel suo “hortus conclusus”, ama una sola disciplina potenziata, la pittura, i suoi corollari relativi, il disegno, l’incisione, il carboncino, l’acquerello, la monotipia, tutti ausiliari e direzionali alla sua densa espressione…le sue opere rivelano sempre una discrezione piena di carattere…le cose rappresentate non proclamano la loro esistenza, ma solo la loro immobilità assorta, che agisce più di quanto non agisce…perché egli è attento al dettato interiore, tra oggetto e spazio, in una sonorità tutta poetica…egli preserva, in seno al suo continuum ottico, un’oasi di occultamento, un’area di “malinconico silenzio e di hostinato rigore”…dietro le quinte, in disparte, nell’angolo sacro della sua quotidianità”.
Sergio Maina, pittore
Villatora pubblica, nel 2008, uno studio monografico sul pittore Sergio Maina di Caslano, 25 gennaio 1913.
Maina frequenta i Corsi invernali d’Arte a Zurigo, alla Kunstgewerbeschule,1931-1932, con Karl Hügin e con Max Gubler; a Parigi, 1935-1936, all’Accademia Grande Chaumière con il pittore, Charles Blanc; a Ginevra, 1936-1938, all’Accademia delle Belle Arti, con il pittore Aexandre Blanchet.
A proposito, l’autore, a pagg. 21-22: “La tematica privilegiata di Maina è il paesaggio, oltre a molti e superlativi ritratti e preziose nature morte.
Il suo paesaggio è, in fondo, di natura neoimpressionista o di un naturalismo novecentesco, sempre referenziale e transitivo…ma l’apertura alla natura, in Maina, diventa, immediatamente, “visione”, dove il “vedere”, è, nello stesso tempo, il “sapere” cézanniano, che si intimizza al proprio “sentire”, al proprio “vibrare”, al proprio “tremare”, vicino ad un nostalgico neoromanticismo. Ancora, il paesaggio di Maina diventa “memoria-diario”, prima del suo nomadismo iniziale, (Zurigo-Parigi-Ginevra), poi del suo sedime nativo (Caslano)…egli si apre e si chiude con quel suo “domestico” sensorio, che diventa polis o patria privata del suo estraneo essere. E, stilisticamente, assomma, spesso, e la maniera nordica e la maniera mediterranea, come afferma, perentoriamente, il pittore, Giuseppe Bolzani, “unisce l’influenza del Nord con quella del Sud”, 1979; il tratto, a volte, diventa secco e nervoso e il cromatismo immediato, frantumato, stenografico…negli ultimi, splendidi acquerelli, 1970-1990, Maina, in contrappunto vitreo, alza in liricità poetica quella natura, che tanto ama e quella sua chiusa, gelosa e sofferta umanità, che, finalmente, si libera, in ariosa ed estrema libertà”.”
Walter Wilhelm Brunner, pittore
Nello stesso anno, 2008, pubblica un’altra monografia analitica, sul pittore di Thalwil (Zurigo), Walter Wilhem Brunner, nato il 18 ottobre 1900, che, a 25 anni, si sposta in Ticino, propriamente, a Cassina d’Agno, vicino alla sorella Paola, sposata a Lugano con Anton Blatter. Nomade-neoromantico, viaggia molto per “maturare”, secondo lui. A Firenze, segue, per 2 anni, l’Accademia di pittura; va poi a Roma, a Napoli, a Capri (Ana Capri), a Nizza, a Marsiglia, e si ferma a Parigi, per 2 anni, per completare la sua formazione artistica. Dal 1950, nei mesi estivi, abita a Brione, (Vallemaggia), oltre il fiume Osola, nel rustico del marito della sorella. Pratica, oltre la pittura, la teosofia, l’astrologia, la botanica…scrive poesie e saggi morali ed interpreta il Nuovo Testamento, con un misticismo di natura orientale.
Muore il 10 dicembre 1971.
A proposito l’autore, in risvolto di copertina: “Un Wanderer esistenzialista, solitario, riservato…si rivolge alla quotidianità rurale e, in particolare, al paesaggio, che interpreta con gli “ismi” di fine secolo ed una personale visione, che tocca, spesso, un geometrismo-astratto, sia con la pittura che con l’incisione, la silografia e l’acquerello.
Tra mediterraneità e nordicità, (Cézanne, Hodler, Cuno Amiet), egli esplica la sua potenza biopsichica e la sua altezza tecnico-espressiva, con una soggettiva forza primitiva ed una raffinata liricità…”. E, ancora l’autore, pagg. 76-77: “Egli assimila, subito, l’espressionismo e il fauvismo, che privilegiano il colore, le novità delle Avanguardie Storiche del ‘900, con estremo equilibrio e con una personale, eclettica espressione ed una dedizione totale all’arte, proprio come vocazione…ed è sempre la natura, che lo attira, alla quale egli, timido e solitario, sempre si rivolge, come interlocutrice dialogante fedele…Egli, del segno-forma-colore, usa solo il colore, “emozionale”, che dilata, smisuratamente, con tutta la sua forza evocativa e psichica…costruisce lo spazio con il colore…e anche il bianco può diventare lilla, rosa, ibis, verde veronese, oppure angelico azzurro, perché la pittura, per lui, è una sostanzialità di una scoperta infinita, nel massimo della semplicità e nel massimo della pienezza…sicuro che, nella Storia dell’Arte del ‘900, Bunner rimane un interprete e un costruttore fedele della sua personalità, in quella densa complessità “tremata”, originale e superlativa…nella magica ricchezza del colore, introspettivo e psichico, nelle ardite composizioni aeree, nelle trasversali prospettive, o nelle improvvise bidimensionalità primitive e nell’immensa varietà dei registri, che egli manovra, ad ogni momento, ad ogni luogo, dell’occhio e dell’animo…”.
Charlotte Brönniman, pittrice
Villatora, nel 2009, pubblica ancora un saggio biocritico, sulla pittrice Charlotte Brönnimann, nata il 14 marzo 1910, ad Orselina-Locarno (TI), nel “Castello Bernese”, che il padre Robert, architetto, aveva costruito per la famiglia. Dopo la morte del padre e del fratello, Fredy, 1937, Charlotte si sposta con la madre, prima a Locarno, poi a Lugano, dove, nel 1942, conosce il pittore Jan Corty (1907-1946). Dopo due viaggi, Francia-Parigi, Italia-Roma, si dedica unicamente alla pittura, che rimane anche l’unico sostentamento della sua sofferta vita. Muore il 4 marzo 1977.
L’autore, in risvolto di copertina: “Sensibilissima, privilegia, tra le tante tematiche, il paesaggio, ma più il fiore, con una tecnica superlativa consumata, sempre rivolta alla realtà, che la circonda, con una puntuale transitività referenziale-metonimica, mai metaforica o simbolica. Figlia del primo Novecento, a Locarno di tradizione, a Lugano di transizione e superamento, rimane, nella sua dimensione, fedele ad una pittura personale conquistata, “domestica”, con una straordinaria profondità di compenetrazione biopsichica, tanto da dare al suo mondo visibile, paesaggio all’esterno, e fiore all’interno, una purissima decantazione estetica”.
18 artisti coreani (Italiano/Tedesco)
Nello stesso anno, 2009, pubblica 18 interventi critici, italiano-tedesco, su 18 pittori coreani, presenti alla Galleria Internazionale SO-UN di Zofingen (AG), diretta da So-Un (Han-Kyoung) Lee. L’autore, nell’Introduzione: “…i presenti 18 artisti coreani, provenienti dall’International Kultur Austausch di Seoul, vengono sottoposti, come tutti, all’inevitabile analisi storiografica, all’esercizio della continuità metodologica, alla moderna pratica critica…criteri necessari, per dare la giusta e doverosa misura dell’altezza di ogni espressione, il valore di proteiformi associazioni visive, come mitopoiesi dell’immaginario iconico-formale di una fatica, come proiezione di una ricerca, come risposta di un linguaggio eversivo di spiazzamento…ancora, sono evidenti le diverse flessioni asiatiche, il luogo geografico, la cultura, la tradizione, che formano il substrato, che dirige la visione del mondo, che modifica il corpo e la mente…se l’Occidente coniuga il verbo avere, il logos pragmatico, l’Oriente coniuga il verbo essere, la fenomenologia poetica della natura, pronunciando, in disparte, parole, come lontananza-attesa-silenzio-limite…e il segno e il cromatismo, anche nell’arte, diventano indefiniti, statici, trasparenti, respirati, sospesi, liquidi, bidimensionali, ben lontani dal furore gestuale e viscerale dell’Occidente…”.
Il tessuto di Klimt
Ancora, nel 2009, Villatora pubblica, Il tessuto di Klimt, 17 testi interpretativi e 17 tavole a colori a fronte, dando, alle “nuove” donne, il tessuto di Klimt, quello stesso, che egli usò per l’alta borghesia femminile di Vienna. In Prefazione l’autore: “…il risultato della personalità femminile, “completa”, di volta in volta, diventa, tra ornamento e corpo, icona e metafora reale-irreale…con due procedimenti: un’operazione traspositiva: gli stessi colori di Klimt ritornano ad adornare e rivestire, con autorità, anche il “modello” di oggi, a dimostrare la sua presenza e la sua attualità…e le 17 tavole proposte, che interpretano, con i colori di Klimt e la sua voce, sono sempre confrontate con le sue sublimi “donne”; un’operazione funzionale: la visualizzazione della nobiltà e della dignità della persona…innalzata al suo decoro ed alla sua magnificenza…diventa una gloriosa metonimia, contigua e variante con la parte e il tutto…di più, il profondo anelito alla bellezza vuole assommare, con Klimt e con me, il finito all’infinito”.
Maurits Ernest Houck, pittore
Nel 2010, Villatora pubblica una corposa monografia analitica, 30 tavole a colori, sul pittore, Maurits Ernest Houck, d’origine olandese, che nasce a Zurigo il 28.8.1927. Dopo gli studi d’obbligo, frequenta l’Università della città, con indirizzo filosofico-psicologico.
Interrompe gli studi, per dedicarsi alla pittura, sotto la direzione del famoso pittore-architetto, Walter Jonas. Si sposta in Ticino, a Riva San Vitale. Espone in Svizzera, Italia, Austria, in America. Scrive saggi, “Goya e il nostro tempo”, e poesie. Muore il 6.10.1967.
L’autore, in risvolto di copertina: “Houck, nomade ed europeo, come egli si definisce, drammatico e meditativo, coniuga, nella sua densa opera pittorica, Nord e Sud, con il colore espressionista, rosso-blu, e la veemente luce mediterranea, Sicilia-Spagna. Come un neoromantico, ripropone l’uomo di oggi nella sua dimensione esistenziale e nella sua mai finita scienza e conoscenza, visualizzando la vita e le cose, con un soggettivismo immediato, magneticamente magmatico, pervasivamente ed introspettivamente psicologico: una totale immersione nella quotidiana dialettica del vivere, nella ciclicità delle stagioni, pronto, con un referenzialismo, transitivo-intransitivo, a consegnare la sua scrittura, fortemente espressionista, ma liberamente e superlativamente lirica, alla Storia dell’Arte, tra gli anni postbellici del secondo conflitto mondiale, prima ancora che, nella pittura, il concettualismo oggettuale contemporaneo staccasse l’uomo dal suo habitat”.
Nessuno come te
Nel 2012, Villatora pubblica, per il momento, l’unico romanzo-documento della sua produzione, Nessuno come te. In retrocopertina, l’autore: “Lili Schnitzler, a diciannove anni, si suicida con la pistola del marito, più anziano di lei di vent’anni.
Johann Ottokar, il protagonista, la risuscita, per completare quella parte di vita, che non ha avuto. E all’umanità, alta e bassa, che incontra, offre il suo nuovo, continuo, disinteressato, discreto e profondo amore, che le ha trasmesso il suo maestro, Ottokar, “nessuno come te”. E l’anello d’oro a spirale, che porta al dito, è il simbolo di riconoscimento di ogni spirito, che comincia sempre da capo, in una quotidiana ed incessante maturazione. Il resto “appartiene alla morte”.
A proposito, il critico, Flavio Medici, in una lettera, 31 maggio 2012, comunica all’autore:
“…un libro impegnativo, a cominciare dal tema: il rapporto-colloquio, fra un vivo e una morta, un motivo di nobili ascendenze classiche, da Virgilio a Dante. Ho apprezzato il modo con cui è svolto il tema: l’alternanza dei punti di vista, per cui il vivo parla del mondo dei morti e la morta si inserisce nella vita quotidiana, fa cadere quel muro d’ombra, (per usare un’immagine di Ungaretti), che separa i due mondi…
A ben vedere, mi sembra che tu abbia composto anche un romanzo storico. Hai infatti ricostruito, con fedele aderenza alla verità, tutto un mondo, quello mitteleuropeo, di inizio Novecento, con i suoi protagonisti, come Alma Mahler, Klimt, Schiele…E, proprio, come in un romanzo storico, sono resi, in modo preciso, anche gli ambienti, con descrizioni puntigliose di alcuni luoghi, soprattutto quelli rilevanti da un punto di vista artistico…altre volte, invece, il mondo, che fa da sfondo alla vicenda, è evocato mediane allusioni, con un linguaggio suggestivo che lo rende magico…proprio questo intreccio di vicende dà al libro una struttura molto complessa, in cui mi pare sia soprattutto originale l’uso dei tempi: un continuo intrecciarsi fra presente e passato, (parallelamente: realtà e mondo ultraterreno), libero e imprevedibile, fino all’annullamento del tempo negli ultimi monologhi di Lili; e, insieme, un continuo mutamento di spazi…nessuno, dei personaggi, è una semplice comparsa, anche quando appare solo di sfuggita, ma tutti hanno una loro personalità, che li rende ben riconoscibili. Sono, insomma, personaggi veri. Certamente, Ottokar è il più ricco di tutti, per la sua grande cultura, l’intenso dinamismo della sua vita e una notevole capacità di ascolto…un romanzo, certamente, riuscito…”.
Fragmenta II
Villatora, nel 2013, pubblica, Fragmenta II, poesie, che vanno dal 1990 al 2012, con sue illustrazioni a colori e bianco e nero. L’autore in Prefazione: “Il presente corpus poetico completa Fragmenta I, che va dal 1960 al 1990, un arco di cinquantadue anni, come presenza sofferta di una lunga e continua ricerca d’espressione.
La raccolta, con il titolo originale del Canzoniere di Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, in generale, con ritmi senari, accentua una brevitas più distanziata, più immediata e concisa, scontrosamente esistenziale, anche nella dialogazione privata o pubblica.
L’assalto dell’asse linguistico, che comincia sempre da capo, con i meccanismi dell’arbitrarietà stilistica, afferra, ogni volta, il particolare o l’universale, nella più disparata tematica quotidiana, con l’immediato, intimo tremore lagrimato, dove l’uomo effimero diventa visibile fiato, suono, colore, tra la sua terra e il suo cielo”.
Soun (Han-Kyoung) Lee, pittrice coreana (Italiano/Tedesco)
Nello stesso anno, 2013, Villatora pubblica un libro monografico critico, in italiano e tedesco, della pittrice coreana, Soun (Han-Kyoung) Lee. L’autore in Prefazione: “…dal 1968, vive in Svizzera e dirige la Galleria International Art, a Zofingen (AG). Dopo gli studi accademici, (Seoul-Zurigo-Lucerna), si dedica sempre alla pittura, fedele, in fondo, alla tradizione calligrafica, tipicamente coreana…è presente, con le sue esposizioni, in Svizzera, Francia, Stati Uniti…attualmente, coniuga l’antica maniera di tradizione con la modernità artistica occidentale, assimilata da una capacità intimista, fortemente personalizzata…Il volume pubblicato, in forma di catalogo, 58 tavole a colori, vuole documentare il suo percorso artistico, in linearità e profondità, e testimoniare la sua lenta e faticosa evoluzione, verso una definizione sempre più qualitativamente elevata”.
Jana e le altre – Jana und die andern (ristampa) – (Italiano/Tedesco)
Villatora, nel 2014, ripubblica, in italiano e tedesco, Jana e le altre, una ristampa, riveduta e corretta del 1996. L’autore, in Prefazione: “Le 16 immagini femminili e i 16 testi in prosa, a fronte, vogliono, contenutisticamente, dialogare o interrelazionare, in stretta complementarietà…”.
Interventi critici (1980-2014)
Nello stesso anno, 2014, Villatora pubblica quasi la totalità dei suoi Interventi critici, che vanno dal 1980 al 2014…a cui aggiunge, alla fine, un’appendice letteraria…In Prefazione, l’autore: “Il critico, con scienza e professione, si rivolge solo al linguaggio visivo di un qualunque operatore d’arte, maggiore o minore, sia nella “continuità metodologica”, passato e presente, sia nella “diversità metodologica” dell’hinc et nunc. Nell’incrocio spazio-tempo, ancora, il critico compone e ricompone, ma, soprattutto, misura e pesa il prodotto e il produttore e, in simbiosi biopsichica, la sua “ripetizione esterna” e la sua specifica “differenza interna”…un compito, propriamente complementare, tra la visione soggettiva del mondo, “componente ontologica”, e la visione oggettiva della società, “componente sociologica”.
Prosa breve (Italiano/Tedesco)
Nel 2015, Villatora ripubblica 5 Prose brevi, tratte dal suo libro di prosa, Johann, il pittore e altro del 1998, in italiano e tedesco…
In Prefazione, l’autore: “…ho scelto, dal mio libro del1998, 5 prose brevi, per sottolineare ed evidenziare, nel percorso narrativo, il processo dei bimembri, protasi-apodosi, che, in variabilità, si ripetono e per l’uso della lingua, alta e bassa, che le trasfigura…così, nella ritualità della tensione e della soluzione, nella ciclicità del quotidiano e nella voracità inesorabile del tempo, quello che conta, alla fine, è la qualità della vita, che vivi e la qualità della bellezza, che senti”.
Foneticità – Visibilità – Attività letteraria – Attività Pittorica
Consegno questo documento a me stesso e a chi mi conosce o a chi mi vuol conoscere, come segno “visibile” di una vita, come rivelazione di una “sudata” fatica, di una “costante” ricerca, di una qualità sempre “maggiore”, che vuole toccare, “in totalità”, attraverso l’elemento espressivo, foneticità (parola) e visibilità (colore), l’essere umano, significandone, profondamente ed esteticamente, ogni istante.
Augusto Giacometti (1877-1947) – Figurazione – Trasfigurazione
Dopo il mio lontano intervento biocritico del 1997, su Augusto Giacometti, “Augusto Giacometti-L’uomo e il colore”, ritorno di nuovo al pittore, con rinnovata passione e con più approfondita conoscenza, nel 2018, dopo 21 anni di silenzio.
Augusto Giacometti (1877-1947) di Stampa (GR), è già ormai autorevole nella Storia dell’Arte Svizzera e nelle pubbliche aste europee, (Zurigo-Londra; nel 2000, la Christie’s vende, a Zurigo, il quadro “Maria con il Bambino Gesù”, 1915, per 1 milione e mezzo di franchi), vicino al suo conterraneo, anche pittore, Giovanni Giacometti (1868-1933), cugino di secondo grado, e al figlio di lui, Alberto (1901-1966), scultore delle statue “filiformi”.
Questa volta, incentro la mia ricerca, sulla modalità “magica” del trapasso dalla figurazione alla trasfigurazione, con il solo medium del colore.
Il segno-linea, con l’autorità di Edouard Dujardin (1861-1949), esprime la realtà, ciò che è “perenne, il colore ciò che è contingente e determina l’atmosfera e la sensazione”.
A ugusto si rivolge, unicamente al colore, come conferma nelle sue memorie, “tutto ciò che è colore ha sempre fatto una grande impressione su di me”.
Il colore, non come pigmento fisico, ma come elemento “spiritualizzato e immateriato”, come afferma ancora lui.
Un colore, che si può “masticare” o “bere”, che nutre il corpo e l’anima; un colore, come quello dei Primitivi Italiani, come quello del Beato Angelico, “un azzurro indescrivibile, che pareva seta, tirato sull’ocra e la carne, in realtà, non era che un grigio caldo”.
Anche quando presenta, alla Conferenza radiofonica di Fluntern, 15 nov. 1933, il suo studio sul cromatismo, con il titolo, “Die Farbe und Ich” (“Io e il colore”), egli dimostra di identificarsi con il colore: non solo quindi, psicologicamente, una pulsione sublimante del soggetto-pittore, ma una funzione identificante dell’oggetto-colore; le due componenti sono presenti in Augusto, la prima più latente e segreta, la seconda più manifesta e pubblica.
E, con Novalis, “romanticizza” il colore, come “potenziamento qualitativo (Qualitative Potenzierung), che dona alle cose la dignità dell’Ignoto, al finito l’aspetto dell’Infinito”.
Ancora, emblematica l’affermazione di Novalis, nei “Discepoli di Sais”, “c’è dentro di noi un tratto misterioso, in tutte le direzioni, che da un centro infinitamente profondo si diffonde tutt’intorno”. Questo trattomisterioso è, per Augusto, il colore, il suo daimon eracliteo, che trasforma il mondo, non con la parola, ma con il colore.
E questo “sentimento dell’Io”, (“Ich Gefühl”), tanto lodato da Carlo Carrà nel L’Ambrosiano, giugno 1935, individuale, personale, che parte dal piccolo paese di Stampa, chiuso tra le montagne e attraversato dall’irosa e fredda Maira, e si allarga attraverso il “sentimento del mondo” (“Welt-Gefühl”), che egli chiama “cosmico”, transindividuale, e collettivo, dove egli, finalmente, trova la totalità della sua natura, nella figurazione, ma subito nella trasfigurazione, con l’onnipotenza “tremata e magica” del medium cromatico.